Ferragosto Sanchirichese

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CHE FINE HA FATTO IL GALLO?
Il Ferragosto sanchirichese e l’evoluzione del suo folklore

    “Con la cresta tumefatta e gli occhi fuori dalle orbite, rigirava il collo come un serpente, come se volesse ingoiare un boccone rimasto bloccato in mezzo alla trachea o come se volesse farsi una cantata senza voce”

In questi termini, da me tradotti, Vito Castronuovo descrisse in una sua poesia dialettale l’aspetto del gallo che fino alla sua infanzia veniva sotterrato, dopo la recitazione dei vespri, davanti la cappella della Madonna Assunta, nel rione Mbera la Terra, ogni 15 agosto. Il rito sacrificale era detto “u iuocu ri lu gallo”. Dalla buca affiorava solo il collo e la testa della vittima, già straziata per il terrore fomentato alla vista della fila di concorrenti che pagavano una certa quota per tentare di ammazzarlo con una bastonata. Il giocatore, dopo essere stato bendato con un fazzoletto, con il bastone in mano veniva fatto girare su se stesso per perdere l’orientamento, dopodichè cominciava a sferrare colpi a vuoto prima del colpo fatale per la povera bestiola. Gli spettatori avversari gridando a squarcia gola vantavano il diritto di depistare il turno del concorrente, facendosene beffa ogni qual volta falliva il tiro. L’evento del gioco del gallo era una buona occasione per i giovanotti di passeggiare con le signorine timide, nascoste sotto la cappa del pannicello (tipico indumento femminile lucano, ovvero uno scialle di panno pesante), mentre le donne di chiesa da lontano guardavano con disprezzo, lamentando che quella non fosse una buona scuola per i ragazzini.

Con il tempo questo gioco, oltre ad essere divenuto illegale grazie a delle norme che cominciavano a denunciare i maltrattamenti agli animali e alla loro macellazione pubblica, cambiò nome, vittima e luogo di svolgimento, mentre la tecnica del bendaggio, dei giri su se stessi e del colpo finale si è conservata. Dall’ingresso del paese tutto venne spostato nella piazzetta dei Martiri d’Ungheria, sotto la caserma dei carabinieri. Il gioco venne ribattezzato “u iuocu ri li pignat” e l’evento venne definito “Ferragosto sanchirichese”.
Su una grossa corda vengono appese una serie di pignatte e vasi di creta all’interno dei quali vi è custodito un biglietto con su scritto il premio da vincere. Così, dal gioco a terra si è passati al gioco in aria. Il bastone, lungo circa m1,80-2,00, si chiama “virga” ed è semplicemente un ramo di frassino dal diametro di 7-8 centimetri. A protezione della testa e degli occhi si usa un casco dalla visiera sigillata da nastro per imballaggio. Il fortunato concorrente alla rottura del vaso, oltre all’orgoglio per la buona figura si ritrova impiastricciato da una colata di mistura di colla, acqua, segatura, coriandoli e uova, quasi come se si volesse simboleggiare la benedizione del premio vinto. Se in passato il premio in palio era il gallo stesso, oggi i premi vengono pazientemente raccolti dalle campagne, che solitamente offrono uova, conigli, galline o pecore, mentre i commercianti offrono prodotti dai lori scaffali o buoni acquisto.  
Uno speaker avvia il gioco, annuncia i premi, prende in giro i partecipanti, e di tanto in tanto decanta il menù della serata a base dei prodotti tipici sanchirichesi, come: trippa e patate, soffritto di  interiora di maiale, peperoni imbottiti, cotica e fagioli. Nel mentre il caos della piazza e le urla degli avversari, tenuti a debita distanza, distraggono l’attenzione dell’esibizionista. La sfida inizia puntualmente alle ore 16:00 e viene interrotta solo in due momenti: al passaggio della Madonna in processione e all’esaurimento delle pignatte da rompere.
Per quanto riguarda gli incontri galeotti dei giovani innamorati è inutile dire che ormai non avvengono più in quel modo pudico, e le brave donne di chiesa, se vogliono, continuano a lamentarsi senza farsene accorgere.
Francesca Caputo 

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